Lo schiaffo del vento non è stato solo un male. Una doppia faccia la sua: in parte Mr. Hyde, in parte Dr. Jekyll, sfruttando l'allegoria del racconto di Stevenson. Nell'immagine, alberi sradicati dal vento della tempesta Vaia nel bosco di abete rosso altimontano del trentino: nelle aperture create dal crollo di queste piante si svilupperà la rinnovazione naturale (foto di Danilo Travascia, studente del corso di Scienze Forestali e Ambientali dell'Università della Basilicata, giugno 2019). Scorrere la fotostoria.

La tempesta Vaia ha abbattuto prevalentemente, anche su vaste superfici, boschi di abete rosso di origine artificiale, soprattutto nella fascia montana (foto: Danilo Travascia, s

Effetti della tempesta  Vaia ad alta quota: le condizioni della cembreta del Passo del Lavazè dopo la tempesta (foto: Danilo Travascia). Il bosco rinascerà da solo.

La tempesta e il ritorno del bosco 

Fino a poco tempo fa le grandi tempeste di vento, i grandi uragani, non entravano nell’orizzonte dei nostri pensieri e delle nostre preoccupazioni; o almeno poco. Erano racconti di posti distanti, storie di cicloni nati nel cuore dell'Atlantico: come la tempesta Lothar che nel giorno di Santo Stefano del 1999, partendo dal golfo di Guascogna attraversò la Francia il Belgio e la Germania con venti di oltre 250 km all'ora, causando oltre 140 vittime e l'abbattimento di foreste per un corrispettivo di 240 milioni di metri cubi di legname; o il ciclone Viviane che nel 1990 colpì i boschi dall'Irlanda alla Svizzera, o l'uragano Gudrun che dalla Gran Bretagna alla Svezia atterrò più di 70 milioni di metri cubi di boschi. Non ci apparteneva l'idea che in Europa le tempeste di vento fossero il il principale fattore di disturbo e agente di danno per le foreste (oltre il 50% del totale), con una media di due tempeste catastrofiche ogni anno. Pochi sapevano che per le foreste europee il vento fosse un tipo disturbo molto più importante degli incendi, che facesse danni per tre volte tanto.

Poi le cose e la nostra percezione sono cambiate. In parte già dai tempi della tromba d'aria che, nella primavera del 2015, aveva colpito i boschi della Toscana, inclusa la foresta di Vallombrosa, culla della scuola forestale italiana [1]. Ma soprattutto da quando, il 29 ottobre del 2018, quel ciclone che i meteorologi hanno chiamato tempesta Vaia, si è abbattuta sulle valli e le montagne delle Alpi orientali, Veneto e Trentino soprattutto [2]. Anche Vaia ha avuto origine come perturbazione di origine atlantica, poi si è abbattuta sulle nostre regioni con venti di scirocco dai quadranti meridionali, con una velocità di oltre 200 km all’ora. Dell’evento sono stato testimone quasi in diretta: quella stessa sera ho infatti ricevuto una telefonata da un amico che abita a Dimaro, un comune del Trentino dove la mia famiglia ha una casa di vacanza: «qui è il finimondo, dalla montagna sta venendo giù di tutto», mi sono sentito dire. Vaia ha sconvolto versanti e torrenti, danneggiato abitazioni e infrastrutture, abbattuto milioni di alberi (corrispondenti a circa 8 milioni di metri cubi di legname), modificato in modo rilevante un paesaggio forestale che costituisce un patrimonio di grande valore sul piano naturalistico, culturale ed economico [2].

Le immagini della devastazione e i commenti si sono rincorsi su tutti i media. Gian Antonio Stella, molto legato alle zone colpite, sul Corriere della Sera del 4 novembre 2018, così ha iniziato il suo pezzo: «immensamente più forte e rabbioso del vento Matteo, narrato da Dino Buzzati nel ‘Segreto del Bosco Vecchio’...il vento furente di lunedì sulle montagne venete ha lasciato devastazioni apocalittiche...».

Di Vaia si parla e si dice ancora spesso. Non più per le devastazioni materiali, che la gente e le amministrazioni locali hanno saputo fronteggiare con efficienza, ma per i suoi effetti ambientali e in rapporto ai processi di ricostituzione che la foresta può autonomamente mettere in atto. A questo riguardo, dopo qualche anno dall’evento, molte cose ci portano a dire che lo 'schiaffo' del vento non è stato solo un male. Una doppia faccia la sua: in parte Mr. Hyde, in parte Dr. Jekyll, sfruttando l'allegoria del notissimo racconto di Stevenson.

Come Mr. Hyde ha colpito nel cuore la gente di montagna, legata ai propri boschi, frutto del duro lavoro di nonni e genitori, con effetti psicologici da non sottovalutare soprattutto in quelle zone dove l’economia e la mentalità non sono ancora dominate (ogni tanto stravolte) dagli introiti del turismo, e dove la gente sente il bosco come ‘casa sua’. Come Mr. Hyde ha creato perturbazioni nel mercato del legname, con conseguenze per i bilanci economici della comunità, soprattutto nel caso dei piccoli comuni; e ci ha sbattuto in faccia la soverchiante concorrenza di quelle imprese forestali straniere (in gran parte austriache) che sono corse a prendersi  il legname che Vaia aveva buttato a terra e che le nostre imprese non erano in grado di sgomberare in tempi rapidi. Legname che poi ha seguito il normale corso del mercato, per cui oggi ci ritroviamo IKEA che pubblicizza l'iconica libreria 'Billy' fatta con il legno di Vaia, che IKEA ha acquistato dalle ditte austriache che se lo sono venute a prendere nel Triveneto.

Se consideriamo invece i dinamismi naturali che Vaia ha messo in moto, siamo portati a dire che il vento ha assunto, in numerosi casi, anche la faccia benevola del Dr. Jekyll. Per chiarire bene il ragionamento, partiamo da un principio ben conosciuto agli studiosi dell’ecologia forestale, che è questo: le tempeste di vento sono da interpretare alla stregua di un disturbo naturale che, periodicamente (oggi forse più spesso per via del cambiamento climatico) incide sulla foresta. In termini scientifici si parla di stand replacing disturbance, vale a dire di un disturbo naturale che innesca una sostituzione del soprassuolo forestale (lo stand degli anglosassoni). Nelle foreste primarie o semi-naturali (dove la mano dell’uomo non ha inciso in modo rilevante) è a questo tipo di fenomeno che si deve la sostituzione della vecchia generazione di alberi con quella nuova, della vecchia foresta con quella che la sostituisce e che in gran parte ne conserva (con un meccanismo detto di legacy, di eredità) le caratteristiche [3, 4].

Questo è essenzialmente quanto è successo alle quote più alte delle nostre montagne, dove il bosco ha un’impronta di maggior naturalità. Qui la tempesta Vaia ha fatto il suo dovere come necessario fattore di perturbazione e ha creato le aperture di chioma necessarie per il naturale ciclo evolutivo della foresta. Quando soffiava forte fra gli alberi, abbattendoli a gruppi, i vecchi forestali parlavano del vento come del ‘martello di Dio’. Nelle sembianze del buon Dr. Jekyll qui il vento si è preso cura del bosco.

Diverso è il caso in cui la foresta distrutta non sia una foresta naturale. Nelle zone dell’Europa centrale dove i disturbi da vento sono frequenti, ciò che succede nella foresta dopo il suo passaggio è stato studiato in numerose occasioni.  Si è visto che dopo l’eliminazione della foresta preesistente (spesso costituita da boschi artificiali di abete rosso e pino silvestre) il terreno viene presto colonizzato da specie pioniere: quelle specie che amano gli spazi aperti, come i salici, le betulle, i frassini, i sorbi, con differenze fra un posto e l’altro a seconda delle caratteristiche del terreno, del clima, della foresta circostante. Non si tratta di una foresta come quella di prima: le chiome degli alberi si stratificano verticalmente in modo diverso; diversa da prima è anche la disposizione degli alberi nell’occupazione del terreno. In seguito queste specie pioniere vengono sostituite da quelle che sono in grado di rinnovarsi anche in un bosco denso: le specie dette definitive, che caratterizzano le fasi tardive del processo noto in ecologia come successione secondaria. Talvolta si è visto che anche nel caso di boschi lontani dalla naturalità, ma in presenza di specie definitive (come è l’abete rosso nella fascia montana del Triveneto percorsa dalle folate tempestose di Vaia), la fase pioniera può essere evitata e si può, in tempi anche brevi, ricostituire una copertura forestale che conserva (per effetto legacy) le caratteristiche della foresta di prima. Quindi: sono attivi meccanismi ecologici che in tempi non necessariamente troppo lunghi rigenerano una foresta in grado di assicurare i suoi importanti benefici ambientali [4].

I regimi dinamici innescati dai disturbi naturali sono oggi considerati come modelli di riferimento importanti per la gestione forestale sostenibile in Europa [5].

La foresta alpina ha quindi in mano diverse carte per reagire autonomamente all’effetto Vaia. Ne sono ben consapevoli i tecnici forestali che stanno operando in quelle zone e che stanno limitando gli interventi di ricostituzione artificiale ai casi in cui risulti strettamente necessario mettere in sicurezza, nell’immediato, un versante o un abitato.

E’ auspicabile che in questi casi vengano messe a dimora piantine prodotte da seme selezionato in base alle conoscenze sulla variabilità genetica delle specie forestali, che riflette in gran parte le migrazioni con cui le specie si sono diffuse nel post-glaciale a partire dai loro rifugi. In questa variabilità si rispecchia una storia naturale che va preservata con cura, evitando di alterarla con l’immissione di materiale estraneo ai processi di adattamento delle specie.

Si sia comunque coscienti di quanto, nella maggior parte dei casi, sia meglio lasciar fare alla natura: senza la fretta di chi vuole ripristinare, risistemare, cancellare le tracce, come se la foresta fosse una casa cui rifare il tetto, un ponte da consolidare, una strada da mettere in sicurezza. Il sapere ecologico che possediamo invita a una strategia di osservazione e attesa; sollecita a monitorare  la dinamica della rinnovazione naturale; a valutarla  in rapporto ai mosaici ambientali e a quanto del bosco è rimasto, alla variabilità delle condizioni micro-climatiche e geomorfologiche; mette anche in guardia circa l’attesa che il bosco possa ricostituirsi dappertutto in poco tempo, soprattutto negli ambienti climaticamente più difficili. La tempesta ha colpito boschi diversi in posti differenti e ogni situazione può fare storia a sé, in rapporto alle caratteristiche di clima e suolo, e anche alla presenza di fauna selvatica che possa brucare la rinnovazione naturale.

Lasciar fare alla natura porterà, in molti casi, ad avere boschi migliori, in termini di biodiversità, di quelli di prima. Va infatti riconosciuto che la maggior parte dei boschi abbattuti da Vaia non erano (come spesso si è sentito dire) boschi secolari di inestimabile valore. La maggior parte erano boschi artificiali di abete rosso, derivanti dai rimboschimenti (nei cui cantieri trovava lavoro tantissima gente) che si resero necessari dopo la guerra 1915-18; dopo che gli eserciti, accampati per anni sulle montagne, dei boschi avevano fatto piazza pulita. Boschi mono-specifici, con una struttura semplificata, dove gli alberi crescevano stretti gli uni gli altri. Alberi deboli sotto il profilo della stabilità meccanica: sotto lo sferzare della tempesta sono caduti gli uni addosso agli altri con un devastante effetto domino. Dalla ricostituzione per via naturale verranno fuori foreste a struttura più varia, in grado di assicurare maggiori benefici rispetto a quelle di prima. Il bosco ci rimetterà del tempo a ricrescere, là di più, qui di meno; sarà un mosaico, anche su piccole superfici, dobbiamo aspettarci questo. Ma se avremo pazienza di aspettare, cresceranno boschi variegati, produttivi, belli da vedere e in grado di fronteggiare meglio le future tempeste.

Dopo Vaia, anche il paesaggio sarà diverso, ma non peggiore. Fin da ragazzo ho risalito le strade a tornanti dei passi dolomitici. Fra i tanti ricordi, uno dei più nitidi è quello delle finestre fra gli alberi, attraverso le quali dalla strada era possibile traguardare le montagne. Negli ultimi anni le strade si avvitavano, con i loro tornanti, all’interno di una galleria verde di foreste monotone. Ora, per effetto del vento, numerose finestre si sono riaperte e dalla macchina possiamo vedere più montagne, nuvole e cielo.


[1] Bottalico F. et al. (2016). Linee guida per la ricostituzione del potenziale forestale nelle aree danneggiate dal vento: il caso dei boschi della Toscana. Italia For. Mont. 71 (4).

[2] Motta R. et al. (2018). Selvicoltura e schianti da vento. Il caso della “tempesta Vaia”. Forest@ 15: 94-98. 

[3] Shibuya M. et al. (2019). Stand-level windthrow patterns and long-term dynamics of surviving trees in natural secondary stands after a stand-replacing windthrow event. Forestry: An International Journal of Forest Research 92: 473–480.

[4] Mitchell S.J. (2013). Wind as a natural disturbance agent in forests: a synthesis, Forestry: An International Journal of Forest Research 86: 147–157.

[5] Aszalós R. et al. (2022). Natural disturbance regimes as a guide for sustainable forest management in Europe. Ecological Applications. Accepted Author Manuscript e2596.