Giano Bifronte custodisce la casa con lo sguardo rivolto sia all'indietro sia in avanti. Così fa chi intende salvaguardare il potenziale evoluzionistico della foresta per gli anni a venire. Deve guardare al passato per ricostruire la storia naturale delle specie forestali e poi definire le più idonee strategie di conservazione. L'immagine di copertina documenta un lascito importante della storia naturale dell'abete rosso (Picea abies Karst.): la popolazione autoctona e relitta di Campolino, sull'Appennino tosco-emiliano,  (Pistoia) v. mappa qui sotto  (foto di Andrea Piotti). Scorrere per il fotoracconto.

Un'altra immagine della popolazione autoctona di abete rosso di Campolino (foto di Andrea Piotti).

In fuga dai ghiacci con ritorno

Quando, verso la fine del 1978, iniziai a frequentare l’Istituto di Selvicoltura dell’Università Firenze, fui incuriosito da una  corrispondenza di buste che provenivano da varie parti d’Europa: Scandinavia, paesi del Centro-europa e della penisola balcanica, regione alpine. Le buste contenevano delle squame legnose: quelle che, saldate a un asse centrale rigido (il rachide), formano l'organo della pianta che tutti conoscono con il nome di pigna. Ma che in botanica prende il nome di strobilo. Erano squame di strobili di abete rosso, una delle conifere più importanti e con areale più vasto del continente europeo.

Questo materiale era indirizzato a Ezio Magini [1], caposcuola degli studi di genetica forestale in Italia. Alla mia domanda su cosa servissero, mi spiegò che misurandone i caratteri e analizzando i dati con metodi statistici appropriati, si poteva scoprire dove si era rifugiato l’abete rosso ai tempi delle glaciazioni, come fosse avvenuta la sua espansione post-glaciale e quale fosse l’origine della popolazione naturale di abete rosso che un brillante botanico dell’Università di Firenze, Alberto Chiarugi, aveva individuato, già prima dell'ultima guerra, sull’Appennino tosco-emiliano, in provincia di Pistoia, in quella che ora è nota come riserva naturale orientata di Campolino [2].

Dobbiamo quindi partire un po' da lontano: dai cicli glaciali che segnarono l'inizio del periodo Quaternario, circa tre milioni di anni fa. Separate fra loro da fasi interglaciali, ci sono state quattro principali glaciazioni, indicate con nomi tedeschi, Günz, Mindel, Riss e Würm. Si tratta dei nomi di quattro fiumi, affluenti del Danubio, che scorrono in quelle vallate della Baviera dove sono state descritte per la prima volta le tracce dell'attività morfogenetica dei ghiacciai che si sono sviluppati durante questi cicli freddi.

L’ultima delle glaciazioni, quella di Würm, durò, all’incirca, dai 110.000 ai 12.000 anni fa. Nel continente europeo, al momento del picco glaciale di Würm, il ghiacciaio della Scandinavia arrivava fino alle zone settentrionali delle Isole Britanniche, della Germania e della Polonia, coprendo quindi buona parte del continente. Tutta la catena alpina era coperta da ghiacciai, le cui lingue terminali si insinuavano profondamente nella pianura padana. Ma anche al di là delle zone inagibili alla vegetazione perché coperte dai ghiacci, in montagna e alle latitudini settentrionali le condizioni ambientali erano incompatibili con la vegetazione. Solo le zone di bassa quota e quelle alle medie e basse latitudini del continente europeo mantennero in quel periodo condizioni climatiche compatibili con la crescita e la riproduzione degli alberi.

Questa condizione causò la scomparsa delle popolazioni arboree dalle zone settentrionali e di montagna. L'abbandono delle località sfavorevoli da parte degli alberi è avvenuto con una 'fuga' (nel linguaggio scientifico si parla di migrazione) lungo delle direzioni preferenziali. Gli alberi si sono quindi spostati, anche se in realtà non si sono spostati i singoli individui quanto il loro patrimonio genetico.

Come è avvenuta questa fuga? Per capirlo  basta riflettere sul fatto che la dispersione del polline (la struttura della pianta che trasporta i gameti maschili) e del seme (l’organo che trasporta l’embrione, cioè il risultato della fecondazione) è efficace, ai fini della sopravvivenza della specie, solo se avviene verso un ambiente nel quale sia possibile lo sviluppo e la maturazione sessuale delle nuove piantine, cioè della generazione che deriva dai processi riproduttivi. Durante le glaciazioni il perdurare di condizioni sfavorevoli nelle zone settentrionali e di montagna ha quindi imposto un graduale spostamento degli alberi verso le zone dove potevano sopravvivere. Queste zone sono dette rifugi glaciali. Al termine della glaciazione cosa hanno fatto gli alberi? Con il ristabilirsi di condizioni ambientali favorevoli, le specie arboree  hanno iniziato ad espandersi nelle varie le direzioni e in questo modo hanno ricolonizzato le aree geografiche che in precedenza erano state costrette ad abbandonare.

Si tratta, è bene dirlo, di una descrizione molto semplificata di quello che accadde, di quelle complesse condizioni ambientali che si determinarono durante le glaciazioni e le fasi interglaciali. Certamente ci furono, ad esempio, fasi glaciali in cui alle basse latitudini il clima era favorevole allo sviluppo della foresta, così come fasi di mezzo in cui le condizioni erano avverse alla persistenza degli alberi. In genere le condizioni ambientali furono molto variabili nelle diverse aree geografiche anche in rapporto alla disposizione delle catene montuose, alle fluttuazioni del livello del mare, ecc. Anche le migrazioni degli alberi non avvennero in modo lineare, ci furono avanzate, dietrofront, riavanzate lungo direzioni diverse, e così via.

L’identificazione delle zone di rifugio e lo studio dei processi di espansione naturale delle specie forestali hanno suscitato da tempo l'interesse dei botanici e dei genetisti di popolazione. I quali si sono chiesti: quando sono iniziati questi processi, quali rotte sono state seguite durante le migrazioni, qual’è stata la velocità di ricolonizzazione? E anche: qual’è stato il peso di questi processi nel plasmare la variabilità genetica che oggi osserviamo fra le popolazioni che vegetano in diverse parti dell’areale della specie?

Per questi studi, i botanici hanno impiegato le analisi basate sulla datazione dei pollini (studi palinologici), fatte nelle località in cui questi si sono potuti conservati. L’involucro duro del polline (esina) si conserva infatti solo negli ambienti che si mantengono costantemente umidi e asfittici, come le torbiere o i sedimenti lacustri. Quando si trovano questi ambienti si possono applicare i metodi della stratigrafia. Con delle trivellazioni (carotaggi) si procede all’estrazione di campioni a diverse profondità del terreno. Questi vengono poi datati con il metodo del radiocarbonio, che fornisce risultati precisi per il materiale organico fino a 40000 anni di età. Si passa poi all'analisi microscopica dei pollini, strato per strato, che consente il riconoscimento dei taxa (famiglie, generi o specie) cui i pollini appartengono, e il loro conteggio. In questo modo è possibile definire le percentuali di presenza delle diverse specie nei vari periodi, arrivando alla ricostruzione delle storia della vegetazione in quella determinata località.

Se pensiamo a una specie arborea che abbia iniziato a ricolonizzare il territorio a partire da una certa area rifugio, quando disponiamo di analisi palinologiche fatte in località poste a diversa distanza da queste aree è possibile determinare quando una certa località sia stata raggiunta da quella determinata specie durante il suo percorso di espansione.

Molti risultati importanti sono stati poi ottenuti, negli ultimi cinquant'anni, con un approccio che viene definito di filogeografia. In questo caso i percorsi di ricolonizzazione delle specie vengono ricostruiti con i metodi della genetica di popolazione, vale a dire studiando le caratteristiche genetiche delle popolazioni presenti in zone diverse dell'areale di distribuzione della specie.

La prima cosa da fare in questi studi è quella di mettersi in viaggio per raggiungere le diverse località in cui la specie è presente (è questo uno dei motivi per i quali il lavoro del genetista che si occupa di popolazioni forestali è piacevole) e campionare quindi in modo rappresentativo le popolazioni che vegetano in queste località.

A seconda dei metodi che si usano e dei caratteri che si prendono in considerazione, variano le modalità del campionamento e le caratteristiche dei campioni che vengono prelevati. La cosa importante è quella di utilizzare dei caratteri geneticamente ‘neutrali’. Cosa significa? Significa che occorre prendere in considerazione dei caratteri (siano essi morfologici, biochimici o molecolari) in grado di riflettere un processo evolutivo neutrale, come tende ad essere quello della migrazione, in cui le frequenze geniche delle popolazioni si modificano in modo casuale, indipendentemente dalle capacità di sopravvivenza dell’individuo.

Come mi spiegò Ezio Magini, le squame degli strobili dell’abete rosso sono un carattere morfologico di questo tipo, in quanto le loro caratteristiche (forma e dimensioni) variano in modo indipendente dalla capacità di sopravvivenza della pianta. Negli ultimi decenni il metodo filogeografico ha avuto grande slancio grazie allo sviluppo di una sempre più larga famiglia di marcatori genetici molecolari valutati direttamente sul DNA, estratto sia dal nucleo della cellula sia da altri organelli cellulari, come i cloroplasti e i mitocondri.

I risultati degli studi palinologici fatti dai botanici e di quelli filogeografici compiuti dai genetisti hanno permesso (soprattutto quando i risultati sono stati considerati congiuntamente) di individuare le zone di rifugio glaciale e di tracciare con buona precisione la storia e i percorsi compiuti, durante le migrazioni post-glaciali, dalle più importanti specie forestali.


La storia naturale di tre specie importanti

Il faggio (Fagus sylvatica L.), l’abete rosso (Picea abies Karst.) e l’abete bianco (Abies alba Mill.) sono fra le più importanti e conosciute specie forestali del nostro paese. Il faggio domina la foresta sulle montagne dell’Appennino fino alle quote più alte, regalando suggestivi cromatismi durante l’autunno. L’abete rosso è la conifera che più di altre contribuisce al paesaggio delle vallate alpine ed è la principale fonte di legname nei posti dove si fa selvicoltura. L’abete bianco si concede meno alla vista, soprattutto sull’Appennino: l’uomo ne ha determinato una notevole rarefazione. Ma dove è presente, mescolandosi al faggio e all’abete rosso, rende i boschi di maggior valore sul piano naturalistico, più resistenti alle avversità climatiche e anche più belli da vedere e percorrere.

La storia del faggio durante il periodo glaciale e post-glaciale è stata ricostruita analizzando diverse centinaia di località dove è stato possibile fare le analisi palinologiche e alcune centinaia di popolazioni in cui sono state fatte determinazioni sulla variabilità di caratteri del DNA. Grazie a questi studi (cui hanno significativamente contribuito dei ricercatori italiani, come Donatella Magri dell’Università di Roma, Giovanni Giuseppe Vendramin del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Stefano Leonardi e Paolo Menozzi dell’Università di Parma) ora sappiamo molte cose sulla sua storia naturale. Innanzitutto, sappiamo che alla fine dell’ultima glaciazione la sua distribuzione nel continente europeo era due ordini di grandezza inferiore a quella attuale.

Poi sappiamo che i rifugi glaciali del faggio erano più d’uno: un mosaico di piccole popolazioni distribuite in diverse aree geografiche, sia nella zona mediterranea che nell’Europa centrale. Per questo motivo non c’è stato un unico fronte di ricolonizzazione, ma riespansioni multiple a partire da nuclei diversi, che hanno proceduto con diversa forza e intensità. Quelle più rapide sono partite dai rifugi centro-europei, le cui popolazioni hanno raggiunto relativamente presto l’Europa settentrionale. Dai rifugi dell’Italia meridionale è partita la ricolonizzazione della catena appenninica che però non ha raggiunto l’Europa centrale. La ricolonizzazione non è avvenuta con la stessa velocità nel tempo: nei primi millenni del post-glaciale, dai 10000 ai 3500 anni fa, c’è stata un’espansione rapida, di tipo esponenziale, mentre negli ultimi tre millenni le popolazioni di faggio sono cresciute di meno tendendo a una condizione di equilibrio. Le catene montuose non hanno rappresentato in genere un ostacolo, anzi hanno facilitato la riespansione post-glaciale del faggio. La variabilità genetica che oggi complessivamente osserviamo nella specie  è probabilmente il risultato di processi di contrazione e riespansione che si sono sviluppati durante diverse fasi glaciali e integlaciali [3, 4].

Diversamente dal faggio, che lungo le montagne dell’appennino presenta una distribuzione continua, l’abete bianco è presente a tratti, con popolazioni naturali separate notevolmente le une dalle altre. La storia naturale dell’abete è stata esplorata in anni recenti, con risultati a volte sorprendenti, nel corso di approfonditi studi guidati da da un appassionato genetista di popolazioni, Andrea Piotti del Consiglio Nazionale delle Ricerche [5].

Facendo riferimento a quanto accadde nella nostra penisola, si è visto che durante l'ultimo picco glaciale l'abete bianco ebbe diverse aree rifugio lungo la catena appenninica: un rifugio isolato e relativamente limitato in Abruzzo (fra i Monti della Laga e il Gran Sasso) e aree di rifugio più importanti e vaste tra il grande massiccio montuoso del Pollino, che segna il confine fra Basilicata e Calabria, e l’Aspromonte all’estremità meridionale della Calabria.  E' stato poi visto che esiste un confine genetico netto fra le popolazioni dell'Appennino centrale e quelle poste più a Sud. E, come novità rispetto alle conoscenze precedenti, che c’è una stretta parentela genetica fra le popolazioni dell'Appennino meridionale e quelle che oggi vegetano sulle montagne balcaniche, al di là del mare Adriatico. Per spiegare questi risultati è stata fatta l'ipotesi che le popolazioni dell’Appennino meridionali e quelle balcaniche si siano separate anticamente, per poi rimescolarsi geneticamente grazie a una diffusione a lunga distanza del polline. Fra le popolazioni meridionali, quella che vegeta sulle pendici orientali del massiccio del Pollino, nel Comune di Terranova, rappresenta il nucleo di abete bianco più esteso del sud Italia ed è la popolazione appenninica con la più alta diversità genetica, paragonabile a quella delle più estese popolazioni balcaniche. Si tratta di un patrimonio genetico che potrebbe rivelarsi utile per l’adattamento al cambiamento climatico nei decenni a venire e che potrebbe essere valorizzato nell’ambito di progetti di ridiffusione dell’abete nei boschi dell’Appennino meridionale. Così come alcune popolazioni di abete bianco presenti sull'Appennino tosco-emiliano (v. foto in fondo), che recentemente sono state accertate come popolazioni autoctone (Andrea Piotti, comunicazione personale), potrebbero rappresentare la base per diffondere la specie anche sull'appenino settentrionale,  diversificando il bosco monospecifico di faggio.

La storia naturale dell’abete rosso ci riporta a quelle squame, provenienti da ogni parte d’Europa, che furono studiate da Ezio Magini negli anni ottanta. Ne misurò (grazie all'impegno e alla passione di una sua valente assistente, Anna Maria Proietti Placidi) diverse migliaia e su di esse fece delle accurate analisi statistiche. Cosa venne fuori? Innanzitutto i risultati costituirono una riprova che la popolazione di abete rosso di Campolino era autoctona, come era stato ipotizzato da Chiarugi. Poi venne fuori un interessante quadro di variazione geografica fra le popolazioni dell’arco alpino, quelle delle altre parti d’Europa e quella di Campolino. Magini notò che la popolazione di Campolino assomigliava poco a quelle del settore sud-occidentale dell’arco alpino, mentre mostrava una maggiore somiglianza con quelle della Valle d’Aosta e con le restanti popolazioni alpine. Sulla base di questo risultato fece un'ipotesi suggestiva: quella che la popolazione di Campolino derivasse da qualche rifuglio glaciale posto alla base dell’Appennino Tosco-Emiliano e che poi ci fosse stata una diffusione diretta verso la Valle Aosta attraverso i cordoni collinari delle Langhe e del Monferrato [6]. Questo quadro di conoscenze è stato sostanzialmente confermato da studi fatti dallo scrivente (insieme a Raffaello Giannini dell’Università di Parma e Paolo Menozzi dell'Università di Parma) utilizzando gli stessi dati di Magini, analizzati questa volta con tecniche di statistica multivariata  [7].

Dopo questo iniziale approccio basato su caratteri morfologici, a partire dagli anni novanta la storia naturale dell’abete rosso è stata poi studiata utilizzando diversi tipi di marcatori genetici molecolari, da parte di diversi ricercatori. Malgrado l’ipotesi di una rotta collinare da Campolino verso le Alpi non sia stata confermata, è stata bene evidenziata la notevole diversità di questa popolazione appenninica rispetto alle popolazioni alpine. I dati oggi disponibili non suffragano quindi l’ipotesi che Campolino sia stata una popolazione ‘fondatrice’ vale a dire il punto di partenza di un processo di riespansione della specie, ma che si tratti di una popolazione di tipo marginale: una sorta di relitto, ciò che è rimasto di una più ampia diffusione della specie che circa 30000 anni fa arrivava fino all’Italia centrale  [8].


Guardando in avanti

Oltre ai casi descritti (del faggio, dell’abete bianco e dell’abete rosso), negli ultimi vent’anni è stata esplorata la storia naturale post-glaciale e la variazione genetica a scala geografica di molte altre specie forestali. Per molte delle specie europee la maggior parte dei rifugi glaciali sono stati identificati nella penisola iberica, in quella italica e in quella balcanica. Queste zone di rifugio appaiono come aree ad alta variabilità e sono quindi degli importanti serbatoi di potenziale adattativo per gli ecosistemi forestali. Una diversità ancora più alta, per alcune specie, è stata riscontrata nelle zone dove si sono riuniti i percorsi di ricolonizzazione delle popolazioni provenienti da diverse aree di rifugio. Pure queste aree (ne sono state individuate alcune nell’Europa centrale) rappresentano delle riserve di variazione genetica di grande valore sul piano del potenziale evoluzionistico delle specie forestali.

Queste conoscenze vanno al di là dello del puro interesse scientifico. Rappresentano il fondamento per la definizione delle cosiddette regioni geneticamente omogenee (zone genetiche), sulle quali devono essere fondati i programmi di conservazione delle risorse genetiche forestali. Il corretto inquadramento, sul piano filogeografico, di popolazioni considerate come relitti di più ampie distribuzioni passate (come quella di Campolino o quelle sparse qua e là di abete bianco), è il requisito per poterle gestire correttamente, in modo da non perdere potenziali evoluzionistici preziosi per l’ambiente della montagna appenninica. Il quadro della variabilità genetica naturale costituisce un riferimento da non ignorare per gli interventi di reintroduzione delle specie, di rimboschimento e per tutti quelli in cui si prevede di piantare alberi: interventi che possono essere controproducenti se fatti in assenza, o trascurando, queste conoscenze (si veda a questo proposito l'interessante progetto 'mygardenoftrees').

Oggi c’è poi una importante novità: incombe l’effetto del cambiamento climatico antropogenico, dovuto alle alterazioni causate dall’uomo nella composizione dell’atmosfera. Come possono fronteggiarlo le specie forestali? Potrebbero adottare la stessa strategia adottata per fronteggiare l’avanzata dei ghiacci nel passato: migrare. Ma i dati a disposizione indicano che, se il cambiamento climatico proseguisse all'attuale velocità, per fronteggiarlo sarebbe richiesta una velocità di migrazione di un ordine di grandezza superiore a quella messa in campo dalle specie durante i passati cicli glaciali. Non è quindi una soluzione facilmente percorribile e comunque porterebbe a modificazioni rilevanti nelle caratteristiche delle foreste e nei benefici che queste procurano alla società in una determinata regione geografica.

Ci sono altre possibili strategie che gli alberi potrebbero adottare. Ad esempio quella dell’adattamento alle condizioni locali attraverso la selezione dei genotipi più adatti alle nuove condizioni. Potrebbe essere una soluzione fattibile, data l’elevata diversità genetica tipica delle specie forestali e la loro capacità di adattamento: potenzialmente rapida ma non tale da assicurare dei risultati efficaci nell’ambito di poche generazioni. Qui entra in gioco un altro tipo di conoscenza genetica: quella che riguarda non solo la variabilità genetica neutrale, così utile a ricostruire la diffusione delle specie, ma anche la variabilità genetica adattativa. Legata, quest’ultima, a caratteri importanti per il funzionamento e la sopravvivenza delle specie in un certo ambiente. A questo riguardo, ci sono già dati che indicano come l’accrescimento legnoso di alcune importanti specie forestali dipenda dall’effetto congiunto di due aspetti: da una parte l’organizzazione della variabilità genetica risultante dai processi di espansione post-glaciale dall'altra la selezione locale che ha agito su caratteristiche genetiche di tipo adattativo.

In questo campo il compito della ricerca è soprattutto quello di capire, attraverso studi multidisciplinari, quali processi siano in atto e quale sia la loro relativa importanza, al fine di disegnare efficaci strategie di conservazione e gestione delle risorse forestali di fronte al cambiamento climatico, e alle necessità della società.


[1] Giannini R. (2020). Il ricordo di un grande Maestro: Ezio Magini. Forest@ 17: 42-47.

[2] Chiarugi A. (1936). Ricerche sulla vegetazione dell’Etruria Marittima. III. L’indigenato della “Picea excelsa” nell’Appennino etrusco. Nuovo Giornale Botanico Italiano 43 (1): 131-166. 

[3] Magri D. (2008). Patterns of post-glacial spread and the extent of glacial refugia of European beech (Fagus sylvatica). Journal of Biogeography 35: 450-463.

[4] Postolache D. et al. (2021). Genetic signatures of divergent selection in European beech (Fagus sylvatica L.) are associated with the variation in temperature and precipitation across its distribution range. Molecular Ecology 30: 5029– 5047. 

[5] Piotti, A. et al. (2017). Unexpected scenarios from Mediterranean refugial areas: disentangling complex demographic dynamics along the Apennine distribution of silver fir. Journal of  Biogeography 44: 1547-1558. 

[6] Magini E. et al. (1980). La picea dell'Alpe delle Tre Potenze. Areale, caratteristiche, posizione sistematica. Annali Accademia Italiana di Scienze Forestali, vol. 29: 107-210.

[7] Borghetti M. et al. (1988). Geographic variation in cones of Norway Spruce (Picea abies (L.) Karst.). Silvae Genetica 37: 178-183.

[8] Ravazzi C. (2002) Late Quaternary history of spruce in southern Europe. Review of Palaeobotany and Palynology 120: 131-177.



Uno strobilo di abete rosso (a sinistra) e le squame (a destra) che lo formano, saldandosi al suo asse legnoso centrale (rachide). Furono squame come queste quelle che Ezio Magini analizzò per studiare la variazione geografica di questa specie, la sua storia naturale e l'origine della popolazione autoctona di Campolino.

Dal Monte Gomito, vista sulla riserva di Campolino (foto di Andrea Piotti).

Nelle immagini due piccole popolazioni di abete bianco sull'Appennino tosco-emiliano, identificate come autoctone. In alto quella del lago Verde, in basso quella del lago Ballano, in provincia di Parma (v. mappa sotto) (foto, da drone di Andrea Piotti, febbraio 2022).