L'abbazia di Vallombrosa  prima sede della scuola forestale italiana. In alto sulla sinistra è visibile il Paradisino, edificio dove soggiornò il poeta inglese John Milton, autore del poema epico 'Paradiso perduto'. Il Paradisino per molti anni è stato usato come sede didattica per le esercitazioni estive del Corso di laurea in Scienze Forestali dell'Università di Firenze (foto di Marco Borghetti, ottobre 2021). Scorrere per il commento e altre immagini.

Boschi del medioevo

Si è propagata l'idea che il Cristianesimo medievale abbia segnato una trasformazione della relazione fra la natura, il bosco e l’uomo. Da una natura resa, in parte, sacra dai pagani a una natura che perde sacralità: nella cristiana visione antropocentrica (apparentemente superata con l'enciclica Laudato Sì) tutto è fatto da Dio per l'uomo, che è autorizzato a utilizzare e distruggere la natura a seconda dei suoi bisogni. I boschi, un tempo abitati da ninfe e satiri, ora si disanimano e svuotano, e vengono depredati dagli uomini. Si è anche figurata una contrapposizione con quanto accadeva nei secoli precedenti, con la cura riservata al bosco in epoca romana, così come la troviamo descritta nella Storia Naturale di Plinio il Vecchio, nei trattati di Varrone e Columella; fino a sublimarsi, senza snaturarsi, nella poesia di Virgilio e delle sue Georgiche: cecini pascua, rura, duces, cantai i pascoli, le campagne, i condottieri.

Si tratta, in massima parte, di uno stereotipo. Difficile non riconoscere che furono gli epocali rivolgimenti economico-sociali successivi alla caduta dell’impero romano, le contrazioni e le esplosioni demografiche, la riorganizzazione della proprietà a orientare in modo diverso la relazione fra la società degli uomini e la foresta. E dove, intorno alla metà del primo millennio, grandi estensioni di terra passarono agli ordini monastici, furono questi a salvare una parte cospicua delle foreste dalla distruzione. Dovuta, in buona parte, all’uso pervasivo che, nei periodi di crescita demografica, le popolazioni ne facevano, esercitando diritti di uso e raccolta: il dissodamento per far posto ai campi da coltivare, il pascolo, il diritto di raccolta della legna; e alla nascita dei Comuni, il cui avvento segnò un periodo di distruzione  per le foreste [1].

Ha valore simbolico che la scuola forestale italiana sia stata istituita, nel 1869, in un monastero dell’ordine benedettino, l'abbazia di Vallombrosa, in provincia di Firenze, fondata da Giovanni Gualberto, poi santo, all’alba del secondo millennio. Fu nelle proprietà dei monasteri benedettini (a Vallombrosa come in quelli di Camaldoli e Badia Prataglia) che iniziò la sistematica coltivazione dei boschi di abete bianco, con metodi che proseguirono per secoli e plasmarono un paesaggio che in parte sopravvive. Metodi e tecniche colturali che divennero materia per pregevoli scritti: come quelli di un abate, don Luigi Antonio Fornaini, che all’inizio dell’ottocento ha riassunto con efficacia le secolari esperienze di coltivazione del bosco monastico.

Sul ruolo dei monasteri benedettini, così si esprime Adolfo Di Bérenger, primo direttore della scuola di Vallombrosa: “… è manifesta la prova dell’abbandono generale nel medio evo della coltivazione dei boschi e della poca cura che si aveva di conservarli, al che provvedeva piuttosto la natura che l’arte. D’altra parte non è però men vero che alcuni ordini monastici, specialmente l’insigne dei Benedettini, contribuirono assai a promuovere l’agricoltura e la coltura dei boschi... Così i Camaldolesi allevarono con esemplare studio alcune abetaie e cerreti nei monti che circondano la vallata del Casentino; i Vallombrosani altre nel circondario di Reggello, assoggettandole ad un governo perfettamente razionale... Tutto ciò induce a ritenere che, durante il medio evo, della vera selvicoltura non si occupassero che taluni ordini monastici, poiché le foreste addette ai grandi possedimenti signorili non erano essenzialmente che parchi da caccia…”. Furono sempre i benedettini che diedero vita a boschi celebri come le pinete di Cervia e di Ravenna. Ambiente religioso e culto, coltivazione attenta del bosco, mercato del legno. La tecnica colturale messa a punto dai benedettini tendeva alla produzione di fusti di pregio, ma anche alla creazione di un mosaico forestale che si adattava alla loro visione spirituale. Secondo uno dei capiscuola delle scienze forestali italiane, Generoso Patrone, a lungo docente nell’Università di Firenze, l’abetina è la fustaia mistica per eccellenza, la fustaia dei santi e dei pensatori, dalle piante colonnari, slanciate, dalle eleganti forme geometriche, che suscitano un senso di sacralità e invitano alla meditazione [2].

Chissà poi se fu solo spiritualità cristiana all’interno dei monasteri. Chissà se, nel contatto quotidiano con la natura, non si manifestassero forme di spiritualità pagana, come Umberto Eco ha immaginato nella sua abbazia. In questa finzione, la contrapposizione manichea fra tempi antichi e medioevo ci appare ancor di più uno stereotipo.


[1] Agnoletti M (2018). Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano. Laterza, Bari-Roma, pp. 131-135.

[2] Ciancio O., Nocentini S. (2016). La selvicoltura Vallombrosana da Giovanni Gualberto ai giorni d'oggi. L'Italia Forestale e Montana 71 (2): 105-119.

Allievi guardie forestali durante un'esercitazione nella foresta Vallombrosa, fine ottocento (foto da archivio Marco Borghetti)

L'antico bosco monastico era un bosco coetaneo, monoplano, con fusti diritti e slanciati. Oggi gran parte dell'abetina sta trasformandosi in un bosco misto di abete bianco e latifoglie. Nel piano di gestione attuale (a cura di Orazio Ciancio e collaboratori) è previsto  il mantenimento,  a guisa di silvomuseo, di una parte della foresta in uno stato che rispecchi il sistema di coltivazione monastico. Nell'immagine, una particella dell'abetina di Vallombrosa, dove una tempesta di vento ha provocato, nel marzo del 2015, cospicui danni (foto di Sabrina Raddi, 2021). 

Foresta di Vallombrosa: un tratto di abetina in evoluzione naturale (foto di Sabrina Raddi, 2021).