Paesaggio forestale plasmato dalla selvicoltura finanziaria definita, nei principi e nei metodi, dagli studiosi dell'accademia di Tharandt, fondata in Sassonia da Heinrich Cotta nel 1811: piantagioni monospecifiche di conifere, accorpamenti omogenei di bosco scalati fra le diverse classi cronologiche, turni di utilizzazione fissati in modo da massimizzare il reddito fondiario (foto di Annemarie Bastrup-Birk). Scorrere per la fotostoria.
Dalla Sassonia alla crisi climatica
Durante un viaggio di rientro in Italia dalla Danimarca, qualche tempo fa ho deciso di allungare un po’ la strada e sono passato per Freiberg, cittadina tedesca della Sassonia, oggi sede di produzioni tecnologiche orientate al paradigma industria 4.0. Per arrivarci ho attraversato boschi a perdita d’occhio, fatti per la maggior parte di conifere, abete rosso e pino silvestre.
Quattro secoli fa Freiberg e la sua regione prosperavano sull’estrazione dell'argento dalle miniere dei Monti Metalliferi, e sulla sua lavorazione. Di questa ricchezza di allora sono oggi testimonianza le eleganti case settecentesche che circondano la piazza centrale del mercato. Sia le miniere sia le industrie metallurgiche che lavoravano l’argento erano però avide di energia e per il loro funzionamento erano necessarie enormi quantità di legname. Si aggiungeva una crescente richiesta di legna da ardere, per la popolazione in notevole crescita. Si faceva così man bassa dei boschi della regione, che si erano ridotti al lumicino. Resistevano solo quelli delle proprietà feudali, conservati a scopi venatori. Ma, come non avremmo necessità di spiegare allo smaliziato lettore, qualcosa o qualcuno che si salvano, ci sono sempre.
L’ingegner Hans Carl von Carlowitz era, fra seicento e settecento, l’amministratore delle miniere per conto del principato di Sassonia. Con preoccupazione si rese conto conto dello stato dei boschi e avvertì quanto concreto fosse il rischio di una crisi energetica, disastrosa non solo per l'attività mineraria e quella metallurgica ma per l'intera società in genere. Intelligente e lungimirante, per necessità e molto per sua virtù, von Carlowitz si reinventò forestale dalle moderne vedute. Tanto che è a lui, e al suo trattato dal titolo in latino (Sylvicultura Oeconomica, del 1713), che si riconosce la primogenitura del concetto di sostenibilità nell’uso delle risorse forestali e di quelle ambientali in senso lato [1, 2].
Cosa scrisse nel suo libro, ricco di utili informazioni per la piantagione e coltivazione degli alberi e la cura delle foreste? Qualcosa che per noi è scontato ma che per quei tempi fu rivoluzionario: scrisse che dai boschi si poteva estrarre, con il taglio degli alberi, solo il legname che sarebbe ricresciuto nelle foreste che venivano ripiantate. Aggiornata nel tempo, questa idea è diventata il principio guida della moderna gestione forestale sostenibile. Che nasce quindi in seguito a una drammatica necessità, dove di foreste non ce n’erano quasi più. In altri casi è stato così: i forestali hanno dovuto applicarsi laddove i boschi erano stati distrutti.
Accadde poi qualcosa in terra tedesca? Più che il carattere della gente germanica, poco incline a restare inattiva, fu la necessità di porre rimedio a una situazione che poteva produrre crisi economica e grave povertà, unità al nuovo clima culturale che si stava affermando (fiducia nelle scienze esatte e nei loro metodi: siamo agli albori dell’illuminismo europeo), a dare origine a una vera e propria scienza per la gestione delle foreste.
Fu proprio nella Sassonia di von Carlowitz, a Tharandt, che nel 1811 venne fondata da Heinrich Cotta la prima accademia forestale, la cui impostazione orientò la bussola della gestione forestale e della selvicoltura, fissandone a lungo l’ago su una direzione: quella finanziaria. Tanto che, per indicare l’insieme delle nozioni teoriche e tecniche applicate per la gestione delle foreste e dei beni demaniali, si adottò il nome di scienze 'camerali': dove il termine deriva da Kammer, il gabinetto dei consiglieri che deliberavano sulle finanze dello stato.
Le scienze forestali camerali si svilupparono grandemente, risolvendo in modo efficace, occorre riconoscerlo, i problemi di sostenibilità nell'uso delle risorse forestali, che von Carlowitz aveva bene evidenziato. Ma, alla lunga, oltre agli evidenti benefici, cosa comportò per le foreste tedesche (e non solo) questa impostazione finanziaria?
E’ da poco uscito sulla rivista Science, un articolo intitolato ‘Forest Fight’ [3]: battaglia forestale, potremmo tradurre. Fa riferimento al focoso dibattito che infiamma la Germania sul modo di gestire le foreste. Intorno alle quali, ricordiamolo, gira un indotto di circa 170 miliardi di euro all’anno e il lavoro di più di un milione di persone. Il motivo del contendere? I danni che le foreste tedesche stanno subendo negli ultimi anni per la crisi climatica, con gravi effetti dovuti alle intense siccità seguite da forti attacchi di insetti. Basta guidare attraverso le autostrade tedesche per rendersi conto di varie situazioni di crisi.
Ebbene, molti attribuiscono la vulnerabilità delle foreste tedesche alla loro artificialità: boschi puri e omogenei, edificati secondo l’impostazione finanziaria codificata dagli studiosi dell’accademia di Tharandt due secoli fa. Secondo i quali il bosco andava gestito in base al principio del massimo reddito netto e in funzione delle esigenze dell’industria del legno. Ciò ha portato alla sostituzione su larga scala delle foreste naturali, dove prevalevano la quercia e il faggio, con impianti artificiali di specie più redditizie: pino silvestre e abete rosso soprattutto. Perdite di fertilità del suolo, elevata vulnerabilità alle tempeste di vento e agli attacchi dei parassiti, queste alcune delle conseguenze di cui da tempo molti degli stessi forestali tedeschi si sono resi conto. Ma è difficile rimediare nel breve periodo.
Seguendo i dettami camerali, dalla Germania il bosco puro e coetaneo di abete rosso e pino silvestre è dilagato poi in gran parte dell’Europa centrale. Tranne che in Francia, dove una diversa scuola forestale, quella di Nancy, fondata nel 1826, ha perseguito fin dall’inizio un approccio che ha avuto il merito di assecondare il più possibile i processi naturali del bosco, senza disdegnare l’uso della foresta a scopi di produzione legnosa.
In gran parte d’Europa la selvicoltura tende oggi a orientare il suo ago verso il rispetto delle dinamiche naturali della foresta. L’idea di una selvicoltura prossima alla natura informa le direttive dell’Unione Europee. Di questi sviluppi i selvicoltori italiani sono stati precursori e protagonisti.
Non senza conflitti e ritardi d’attuazione, però. In buona parte della Scandinavia (Svezia soprattutto) la foresta è ancora considerata come una macchina per produrre legno e utilità varie, con una rincorsa a produrre di più e nel più breve tempo possibile [4]. Da noi, le interessanti impostazioni accademiche che cercano di orientare l’ago della bussola verso l’idea del bosco come sistema biologico complesso, del bosco da gestire come fustaia a copertura continua, della gestione adattativa [5], trovano abbastanza spesso, per svariati motivi, una certa resistenza a entrare nell'orizzonte professionale e a tradursi in una realtà gestionale effettiva. Forse, come ai tempi di von Carlowitz, dovremo agire per necessità. Se non saremo noi, potrebbe essere la campana della crisi climatica a stabilire, al posto nostro, la direzione dell’ago.
Silvicultura
Ha il titolo scritto in latino (nella variante scientifica 'sylva') , il libro di Hans Carl von Carlowitz. Anche da noi per tanto tempo la scienza e la tecnica applicata ai boschi veniva chiamata con una parola latineggiante: silvicultura. Oggi le cose sono diverse. Chi studia e si prende cura della foresta è chiamato selvicoltore: se scrivo 'silvicultore' il correttore di Word lo sottolinea.
Nell’italiano moderno, a differenza del francese e dell’inglese, da tempo si è determinata una distinzione semantica: con la parola cultura si fa riferimento all’intelletto e alle sue attività, con il lemma coltura ci si riferisce al rapporto dell’uomo con i campi e i boschi e a tutto quello che riguarda le pratiche di coltivazione. L’etimo della parola è però lo stesso: il participio di colere, usato indistintamente dai latini nei diversi significati. Cosicché Plinio poteva scrivere cultura vitis per indicare la coltura della vite, e Cicerone cultura animi per significare la cura dell’anima.
Silvicultura è quindi parola obsoleta. Ma conserva fascino perché i diversi significati dell’etimo in essa non si separano, continuano a convivere. E volendo possiamo aggiungerne altri, declinando ulteriormente: fra i concetti di culto e coltura, e anche al di fuori di questi, l’estensione dell’etimo ci permette di considerare altre possibili sfumature del rapporto uomo-bosco. Che sono molte. La foresta è stata l’ambiente in cui l’uomo ha vissuto ai primordi della sua storia. Per tanto tempo ha garantito risorse fondamentali per le società umane anche quando dal bosco non erano direttamente dipendenti. Pure oggi, con i problemi estesi a scala planetaria, nella foresta confidiamo. Speriamo che possa mitigare la crisi climatica; che i boschi rendano solidi i versanti e mettano regola allo scorrere delle acque. Apprezziamo la ricca biodiversità che la foresta custodisce, il paesaggio cui dà forma, l’ambiente che ci offre per il tempo libero.
Questa parola obsoleta si presta quindi a essere usata come un’allegorica bussola e il suo ago possiamo sfruttarlo per orientarci sulla relazione, nel tempo mutevole, fra l’uomo e la foresta. In quali posizioni si disponeva l’ago in qualche momento significativo di questa lunga storia? E oggi dove si dispone? Difficile dirlo, la situazioni è variegata. Di una cosa sono però convinto: per gestire le foreste oggi, pensando al futuro, c'è necessità di una cultura del bosco [6], la tecnica è necessaria ma non basta.
[1] Warde P. (2011). The invention of sustainability. Modern Intellectual History 8(1): 153-170.
[2] Vogt M. (2019). Current challenges to the concept of sustainability. Global Sustainability 2, E4.
[3] Popkin G. (2021). Forest Fight. Science 374. No. 6572.
[4] Borghetti M. (2021). Preoccupazioni per la foresta boreale in Europa. Forest@ 18: 38-40.
[5] Nocentini S. et al. (2020). Historical roots and the evolving science of forest management under a systemic perspective. Canadian Journal of Forest Research 5: 163-171.
[6] Ciancio O., Nocentini S. (2001). La cultura del bosco, fra scienza ed etica. L'Italia Forestale e Montana 56 (3): 198-208.
Il frontespizio del libro di Hans Carl von Carlowitz. Tratta da: Wikimedia Commons, the free media repository (URL: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Carlowitz_Sylvicultura.jpg).