Pinete di pino laricio. Il grande altopiano della Sila, in Calabria, ha estese foreste. Nel quadro di una gestione adattativa, rispettosa dell'ambiente, dei valori naturalistici, del paesaggio e delle tradizioni locali, questi boschi potrebbero alimentare una importante filiera produttiva foresta-legno, in grado di contribuire alla riduzione del nostro fabbisogno d'importazione di legname da lavoro (foto di Marco Borghetti).

Le conseguenze a distanza della gestione forestale

La gestione forestale conservativa (minor prelievo di carbonio (C) con le utilizzazioni forestali) in una determinata area può avere conseguenze negative inattese a scala globale. Ad esempio: l'aumento dello stock di C determinato da un prelievo ridotto nelle zone dove si fa gestione forestale sostenibile (aree-GFS) può essere annullato, a scala globale, da una raccolta intensificata nelle aree non-GFS, imposta dalle richieste di legname da parte delle stesse aree-GFS.

Un modello che abbiamo pubblicato qualche tempo fa, costruito su basi funzionali, ha mostrato che: le perdite dipendono in modo cruciale dai tassi di crescita e dai tassi di decomposizione della lettiera nelle foreste sottoposte a utilizzazioni, nonché dalla durata di vita dei prodotti legnosi; ci sono soglie critiche oltre le quali gli effetti negativi a scala globale sul bilancio del C superano sensibilmente gli effetti positivi legati al minor prelievo di C nelle aree-GFS [1].

La valutazione della gestione forestale sul bilancio del carbonio, e quindi sul potenziale di mitigazione delle foreste nei confronti dell'aumento dell'effetto serra dell'atmosfera, dovrebbe considerare le interdipendenze fra prelievi a scala locale e trasferimenti a scala globale del C forestale. Utilizzare responsabilmente i nostri boschi (nelle due foto: una "martellata" appena segnata in un bosco di abete rosso; i risultati di un prelievo legnoso che ha creato le condizioni necessarie per la rinnovazione del bosco) è la strada per ridurre la necessità di doversi approvvigionare da foreste "fragili", peggiorando il bilancio del C a scala globale.

In generale, una diversificazione, nelle diverse regioni, dei regimi di gestione delle foreste, con un equilibrio fra politiche di conservazione e utilizzazione, appare strada efficace per conseguire effetti positivi sul bilancio del carbonio a scala globale [2] .


[1]Magnani F. et al. (2009). Leakage and spillover effects of forest management on carbon storage: theoretical insights from a simple model. Tellus B 61: 385-393. 

[2] García J.H. et al. (2018). The key role of forest management regimes. Journal of Forest Economics 33: 8-13.

Per chi volesse approfondire: questa figura riporta il principale risultato del modello sopra citato [1]. Il grafico mette in relazione lo stoccaggio  del carbonio (C) nelle foreste temperate e boreali insieme (asse delle ordinate, in Peta grammi, Pg; 1 Pg = 1015 g) con le utilizzazioni  legnose nelle foreste temperate (asse delle ascisse, in Pg per anno). La linea continua corrisponde a un ciclo di vita dei prodotti legnosi di 30 anni, le linee tratteggiate appresentano gli effetti di una variazione ±10% del ciclo di vita dei prodotti legnosi. Si può notare che ci sono delle regioni del grafico (A e D) in cui lo stock di carbonio globale è  fortemente dipendente dal tasso di utilizzazione delle foreste temperate. In particolare, a bassi tassi di utilizzazione (regione D) corrisponde un forte abbassamento dello stock di carbonio.

Sul tema delle importazioni di legname nel nostro paese riproponiamo  un appassionato commento, apparso su Fb, del Prof.  Renzo Motta, docente di selvicoltura nell'Università di Torino e attuale presidente della Società di Selvicoltura ed Ecologia Forestale.

"Chi vuole che l’Italia rimanga un paese 'colonialista'? La storia dice che l’Italia ha avuto delle colonie dal 1890 al 1947 (anche se il protettorato sulla Somalia si protrasse fino al 1960). Nonostante la storiografia nazionale italiana abbia sempre cercato di presentare il periodo coloniale italiano come una azione di portata limitata, rispettosa dei popoli dominati, quasi umanitaria in realtà questo periodo è stato caratterizzato da guerre, furto di risorse naturali e stragi come quello delle altre nazioni europee colonialiste. Quello che la storia non dice, o che non è abbastanza conosciuto dall’opinione pubblica, è che l’Italia è ancora oggi un paese colonialista che continua a depredare risorse naturali in molte parti del mondo ed in particolare nei paesi in via di sviluppo. L’Italia nel secondo dopoguerra è un paese che ha abbandonato la sua millenaria vocazione agricola per inseguire uno sviluppo industriale che dopo alcuni decenni ha iniziato a mostrare i suoi limiti di sostenibilità. Nello stesso tempo l’Italia che ha abbandonato l’uso delle risorse forestali del territorio che nel passato hanno rappresentato una ricchezza e una risorsa strategica: basti pensare alle Repubbliche marinare che hanno fondato la loro potenza sulle flotte costruite con il legno dell’entroterra ed in particolare a Venezia che già nel XIV secolo aveva un evoluto sistema di gestione forestale ramificato in tutte le Dolomiti e sostenibile, nella misura di come poteva essere applicata la sostenibilità nel medio-evo, in quanto in grado di garantire un apporto annuale costante di legname all’arsenale veneziano dove questo veniva trasformato in navi che garantivano a Venezia il dominio del Mediterraneo ed utilizzato per le fondamenta di una città costruita letteralmente sull’acqua. Questo abbandono della vocazione agricola-forestale è stato possibile non perché abbiamo imparato a produrre di più e meglio nei terreni più fertili (in parte è vero lo abbiamo fatto) ma è stato possibile perché l’Italia è diventato un paese che acqusisce risorse naturali, agricoli e forestali, da altri paesi. L’Italia “compra” risorse da paesi sviluppati più ricchi (la Francia e la Germania) che hanno programmato una gestione sostenibile ed efficiente delle risorse naturali e sono avvantaggiati dalla disponibilità di un territorio meno montuoso, e da  paesi sviluppati più ricchi che hanno un territorio meno vocato dell’Italia (la Svizzera e l’Austria) ma che riescono a coniugare la regimazione idraulica forestale delle loro montagne, le funzioni di protezione nei confronti delle frane e delle valanghe, le funzioni paesaggistiche, naturalistiche con la produzione di legname che permette di soddisfare le esigenze interne ed anche di esportare il superfluo. Ma soprattutto l’Italia “prende” da paesi più poveri ed in via di sviluppo approfittando della loro debolezza ed approfittando anche delle aree di guerra e di scarso controllo infatti nonostante diversi interventi di prevenzione e controllo la UE stima che ancora oggi oltre il 20% delle importazioni UE sono di provenienza illegale (con 100 miliardi di dollari annui di fatturato il traffico illegale di legname è il secondo traffico illegale internazionale controllato dalle mafie; per confronto il fatturato del traffico di armi è di 20 miliardi di dollari annui). Circa l’80% del fabbisogno “nobile” (legno strutturale o destinato al settore legno-arredo) proviene dall’estero ma anche una quota rilevante di legno “povero” (legna da ardere e cippato) proviene dall’importazione. E’ possibile migliorare questa situazione che provoca danni economici, ambientali e sociali (in Italia ed all’estero)? Sicuramente la prospettiva non è di breve termine ma oggi abbiamo le conoscenze e la consapevolezza per affrontare e migliorare questo gap sia attraverso un aumento delle produzioni legnose fuori foresta e sia attraverso la gestione sostenibile delle nostre foreste che sono raddoppiate in superficie ed in biomassa negli ultimi decenni e da cui preleviamo solo circa il 30% dell’incremento annuo rispetto al 50% della media UE. Il tutto in linea con la strategia forestale europea e con le politiche del green-deal. Chi vuole che l’Italia continui da essere un paese colonialista?"