Sopra e sotto: sul Pollino, versante lucano, una fascia di faggeta imbrunita a causa di una  gelata tardiva.  Al di sopra  le piante non erano ancora entrate in vegetazione quindi non sono state danneggiate, al di sotto le temperature non si erano abbassate sotto la soglia in grado di provocare danni (foto di Angelo Nolè).  Scorrere per la fotostoria.

Fianco a fianco: piante di faggio a fenologia tardiva (quelle verdi) e piante a fenologia precoce,  dopo la gelata del 20 aprile 2017 nella foresta Guadine- Pradaccio, Appennino tosco-emiliano, provincia di Parma  (foto di Stefano Leonardi, qualche giorno dopo la gelata).

La faggeta Guadine-Pradaccio, Appennino tosco-emiliano,  provincia di Parma: si notano bene le piante a fenologia precoce imbrunite a causa della gelata del 20 aprile 2017 (foto di Stefano Leonardi, qualche giorno dopo la gelata).

Il programma del faggio per il freddo

Per affrontare una situazione difficile, avere un programma aiuta. Ce l'hanno gli alberi un programma per affrontare il freddo? Nel momento in cui l'emergenza ambientale sembra quella del riscaldamento climatico, dello scioglimento dei ghiacci e delle campane di calore potrebbe sembrare curioso occuparsi degli effetti della basse temperature. Ma la crisi climatica può comportare anche questo: uno sfasamento, potenzialmente pericoloso, fra l'andamento stagionale dei periodi di freddo e il ritmo vegetativo degli alberi.

Le gelate tardive, vale a dire gli abbassamenti di temperatura al di sotto degli 0 °C che si verificano in primavera, a stagione vegetativa ben avviata, rappresentano un fattore di condizionamento della vegetazione forestale. Nelle regioni temperate dell'Europa, negli ultimi cinquant'anni la frequenza di questi eventi è aumentata e si prevede che diverse specie forestali possano esserne influenzate. Soprattutto quelle opportunistiche cioè quelle che, per sfruttare il più a lungo possibile la bella stagione, entrano subito in vegetazione, non appena si alzano le temperature [1].

A un certo tipo di freddo, a quello che si sviluppa durante la stagione invernale, anche al freddo più gelido, le specie arboree che vegetano nelle aree geografiche con clima ad alternanza stagionale, quello delle zone temperate e boreali, sono adattate. Durante la stagione fredda gli alberi di queste zone entrano in uno stato di dormienza in cui la crescita, sia quella in altezza dei getti apicali sia quella radiale con la formazione concentrica degli anelli legnosi, è sospesa. Si tratta di uno stato fisiologico che si sviluppa in seguito a cambiamenti negli equilibri ormonali della cellula, indotti dalla graduale riduzione della durata del periodo di luce (fotoperiodo) durante l’autunno. Nello stato di dormienza la pianta è grado di superare la stagione avversa. Solo dopo essere stata esposta a un certo numero di ore di freddo la pianta uscirà dalla dormienza e potrà riprendere, in primavera, la crescita [2].

 Le specie che non hanno sviluppato il programma della dormienza, come le specie dell'ambiente mediterraneo, non possono risalire oltre un certo limite di quota o oltrepassare un certo limite di latitudine verso nord. La fisionomia delle fasce forestali è condizionata dalla capacità delle specie arboree di sopravvivere al freddo invernale.

A differenza di quel che succede nel caso del gelo invernale, ben preannunciato dall’accorciamento del periodo di luce giornaliero durante l’autunno,  le piante non possiedono un programma fisiologico individuale per prevedere e affrontare i bruschi abbassamenti di temperatura che si verificano in primavera, dopo che è iniziata l’attività vegetativa. Ormai uscite dalla dormienza e in piena crescita le piante sono vulnerabili e possono subire gravi conseguenze: dai danni all’apparato fotosintetico (il macchinario biochimico preposto all’assimilazione dell’anidride carbonica e alla produzione degli zuccheri), alla riduzione dell’accrescimento stagionale, all’interruzione dei processi riproduttivi, fino a un generale e irreversibile deperimento.

La frequenza con cui si verificano le gelate tardive può condizionare la funzionalità degli ecosistemi nelle regioni temperate e boreali. Gli stessi areali di distribuzione geografica delle specie possono essere influenzati dalla capacità di convivere con questo fenomeno. Un caso è quello delle due grandi querce europee, la farnia (Quercus robur L.) e la rovere (Quercus petraea (Matt.) Liebl.): quest’ultima, più adattata a climi oceanici è meno in grado di convivere con le gelate tardive che spesso colpiscono le zone interne del continente, per cui la sua distribuzione geografica si spinge meno a oriente rispetto alla farnia [3].

In che modo il cambiamento del clima determina un aumento del rischio delle gelate tardive sulle foreste? Ci può essere un effetto del riscaldamento climatico sull’anticipazione della ripresa vegetativa: i periodi di fine inverno sono più miti, la pianta riprende prima la crescita e questo aumenta la probabilità che venga a trovarsi in una condizione di vulnerabilità di fronte a possibili giornate gelide. La seconda è legata all'ipotesi che le alterazioni del clima portino a un aumento nella frequenza di questi  eventi estremi.

Quali sono gli strumenti che le specie forestali hanno escogitato per convivere con questo rischio? Quello più importante è legato alla variabilità che le specie mostrano (fra popolazioni diverse della stessa specie, fra individui diversi all'interno della popolazione) per quanto riguarda la fenologia, vale a dire il ritmo stagionale di crescita. La faggeta, che nel nostro paese rappresenta uno dei più importanti ecosistemi forestali della fascia montana, offre un caso di studio per illustrare questi aspetti. 

Dalla fine degli anni novanta, ogni primavera per oltre venti anni, Stefano Leonardi, ecologo nell'Università di Parma, con cui collaboro proficuamente da molti anni, conduce uno studio sulla fenologia dell’apertura delle gemme di alberi di faggio (Fagus sylvatica L.)che vegetano al limite superiore della foresta nella riserva Guadine-Pradaccio, sull’Appennino tosco-emiliano.  Dopo aver osservato la notevole variabilità nella fenologia nell’apertura delle gemme fra i diversi alberi, Stefano ha voluto capire se queste differenze fossero effimere o se si mantenessero nel corso del tempo. Per questo ha selezionato 180 alberi, suddividendoli fra alberi precoci e alberi tardivi, vale a dire alberi che aprono presto le gemme in primavera ed alberi che le schiudono successivamente.

L’analisi statistica dei dati raccolti dimostra che: da un anno all’altro c’è molta variabilità nel periodo di apertura delle gemme, a seconda dell’andamento climatico stagionale, ma nell’insieme è stato visto che le piante tardive rimangono tardive e quelle precoci restano precoci; tutte, negli ultimi vent'anni, mostrano di schiudere le gemme sempre prima, con un anticipo medio di 5 giorni; le piante precoci hanno una maggior probabilità di risentire degli effetti delle gelate tardive tanto che delle 20 piante (su 180) che sono morte nei vent'anni di osservazione ben 19 erano piante precoci; infine, un risultato non scontato: le piante precoci , pur entrando in vegetazione prima e sfruttando un periodo di tempo più lungo per la crescita, non sono quelle che, nel corso dei vent'anni di osservazione, sono cresciute di più.

Osservazioni interessanti sono state fatte nel 2017, quando c’è stata una gelata tardiva intensa. Nella notte del 20 aprile 2017 alle quote più alte della faggeta Guadine-Pradaccio la temperatura è scesa fino a -6 °C e molte piante precoci sono state danneggiate dal gelo, mentre le piante tardive sono rimaste indenni. Dopodiché, non tutte le piante precoci danneggiate sono morte, anzi molte si sono riprese nel corso della stagione, ma in ogni caso le piante danneggiate hanno subito un rallentamento nella crescita.

Cosa mettono in evidenza  questi risultati? Sono una dimostrazione del  grande valore della biodiversità, che in questo caso si concretizza nella variabilità fenologica fra albero e albero.  A sua volta, questa si traduce in un adattamento a scala di popolazione, dal momento che grazie a questa variabilità ci sarà sempre qualche individuo capace di fronteggiare con successo la gelata tardiva. Nella faggeta, questa variabilità nella fenologia non riguardo solo le gemme ma anche il seme: la germinazione avviene in modo scalare nel tempo per cui solo una parte del seme germinante e delle giovani piantine sarà colpita dalla gelata.

Faggeta del Pollino, versante lucano. Le piante di faggio 'tardive' non sono state danneggiate dalla gelata dell'aprile 2016 (foto di Angelo Nolè, maggio 2016).

Foglie di faggio disseccate dalla gelata (foto di Stefano Leonardi, pochi giorni dopo la gelata del 10 aprile 2017). 

Nell'aprile del 2016 una gelata tardiva aveva interessato ampie zone dell’Appennino centro-meridionale. Si tratta di un fenomeno che abbiamo studiato all’Università della Basilicata dopo aver osservato vasti imbrunimenti della chioma nella faggete del Pollino, vasto massiccio montuoso fra Basilicata e Calabria, nel maggio del 2016.

Incuriositi da quanto vedevamo abbiamo provato a studiare il fenomeno con il metodo del telerilevamento, usando le immagini prodotte dai sensori che si trovano sui satelliti messi in orbita per il rilievo della superficie terrestre. Nel caso specifico, abbiamo usato immagini, prese in diversi momenti, prima e dopo la gelata, del satellite Landsat 8 della NASA e abbiamo applicato l’indice NDVI, che fornisce una stima della copertura verde della foresta [4].

I risultati sono così riassumibili: la gelata ha fatto danni in una fascia altitudinale compresa fra i 1250 e i 1500 m; spesso si sono osservati effetti più consistenti alle quote più basse e sui versanti meridionali, dove le piante entrano prima in vegetazione; la distribuzione dei danni dipende dalla morfologia dei versanti, ma il fattore decisivo nel modularli è rappresentato dalla fenologia delle piante. Al di sopra dei 1500 m la maggior parte delle piante non erano ancora entrate in vegetazione mentre al di sotto dei 1250 m le temperature non si erano abbassate al di sotto di quella soglia (all’incirca – 3°C) oltre la quale il faggio riporta alterazioni permanenti all’apparato fotosintetico, cui segue il disseccamento della foglia; quando invece l’abbassamento della temperatura è inferiore il faggio riesce a riparare i danni attraverso la mobilizzazione degli zuccheri di riserva [5]. In capo a qualche mese, è stato osservata una buona capacità di ricostituzione della chioma danneggiata. Questo è avvenuto attraverso l’emissione, circa due mesi dopo la gelata, di un successivo getto di crescita (il cosiddetto getto di San Giovanni). Dopo un mese dall’emissione di questo getto i valori dell’indice NDVI sono ritornati a quelli che si registravano prima della gelata. Questo significa che la copertura verde della foresta si è prontamente ristabilita anche se le piante rimaste senza foglie per un paio di mesi hanno subito una riduzione della crescita annuale.


[1] Zohner C. et al. (2020) Late-spring frost risk between 1959 and 2017 decreased in North America but increased in Europe and Asia. Proceedings of the National Academy of Sciences 117 (22): 12192-12200.

[2] Rohde A., Bhalerao R.P. (2007). Plant dormancy in the perennial context. Trends in Plant Science 12 (5): 217-223.

[3] San-Miguel-Ayanz J. et al. (2016). European Atlas of Forest Tree Species. European Commission, Online version: ISBN 978-92-76-17290-1, DOI 10.2760/776635.

[4] Nolè A. et al. (2018)  Effects of a large-scale late spring frost on a beech (Fagus sylvatica L.) dominated Mediterranean mountain forest derived from the spatio-temporal variations of NDVI. Annals of Forest Science 75, 83.

[5] D'Andrea E. et al. (2019) Frost and drought: Effects of extreme weather events on stem carbon dynamics in a Mediterranean beech forest. Plant Cell Environ. 43: 2365– 2379.