Faggeta: destinazione fustaia. 

In copertina: faggio ad alto fusto, in primavera (foto di Annemarie Bastrup-Birk). Scorrere per il fotoracconto.

Sopra: piantina (semenzale) di faggio, con i due cotiledoni bene in evidenza; sotto: rinnovazione naturale in faggeta dopo il taglio di sementazione, il taglio con cui si asporta una parte degli alberi adulti per interrompere la copertura delle chiome, fare affluire luce al terreno e favorire così la nascita e la crescita delle piantine della nuova generazione arborea (foto di Marco Borghetti e Annemarie Bastrup-Birk, rispettivamente).

Sopra: ceduo di faggio invecchiato (Casalino di Ligonchio, RE); in mezzo: popolamento transitorio di faggio (Alta Val Parma) dopo il taglio di avviamento all'alto fusto e un successivo intervento di diradamento; sotto: ceppaie policormiche di faggio, al limite della vegetazione, in libera evoluzione, Appennino parmense (foto di Marco Borghetti).

Bosco ceduo, una premessa necessaria

Ciò che in selvicoltura si è poi definito come ‘governo a ceduo’ è il risultato di una scelta accorta da parte dell’uomo, messa in atto dagli albori della nostra civiltà: quella di sfruttare la capacità degli alberi (le latifoglie) di riprodursi per via vegetativa, attraverso tessuti meristematici (le gemme) che si attivano quando la pianta viene disturbata, dando origine a nuovi fusti (i polloni). Non importa che il disturbo sia il morso di un animale, la stroncatura accidentale della pianta oppure il volontario taglio dell’uomo per procurarsi il legno di cui abbisogna. 

Buona resistenza ai disturbi, garanzia che il bosco si rinnovi naturalmente, semplicità e flessibilità gestionale, effetti positivi (anche se transitori) sulla biodiversità, ciclo produttivo breve: sono questi diversi aspetti che hanno reso e possono ancora rendere, in alcuni contesti, desiderabile e perseguibile il tipo colturale del ceduo, sul quale Orazio Ciancio e Susanna Nocentini hanno scritto, qualche anno fa, un esauriente trattato [1].

Non ci sono dubbi sul fatto che il bosco ceduo abbia garantito, fino a pochi decenni fa, il soddisfacimento delle necessità energetiche di buona parte della società italiana: basti pensare che a Roma, durante l’ultima guerra, si consumavano quasi 2500 quintali al giorno di carbone di legna per la cottura del cibo e il riscaldamento. Ma a partire dagli anni ‘50 dello scorso secolo, la legna e il carbone sono stati sostituiti largamente da altre fonti di energia e non c’è oggi quasi nessuno, nella nostra società, che dipenda strettamente dal bosco ceduo per i suoi bisogni fondamentali [2, 3].

Eppure, il governo ceduo è ancora al centro del mirino; è, tuttora, fra i problemi della selvicoltura italiana. Più croce che delizia. Del ‘declino della civiltà del ceduo’ parlava, oltre quarant’anni fa, Umberto Bagnaresi, uno dei maestri della nostra selvicoltura; l’alternativa alto fusto-ceduo era una dirimente scelta di principio per Lucio Susmel, altro grande caposcuola, che definiva il ceduo come ‘rozza forma di governo’.

Nonostante tutto, nonostante le trasformazioni della società, l’Italia rimane largamente il paese del ceduo e la legna da ardere rappresenta la peculiare offerta interna di legname [4]. Secondo i dati preliminari dell’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio (INFC 2015), più del 40% delle foreste italiane è ancora governata a ceduo.

Ma i cedui sono, in gran parte, cambiati: da cedui in cui si tagliavano polloni di pochi anni, nel quadro di una gestione intensiva su vaste superfici, si è passati, in molti casi, a cedui in cui i polloni superano di molto l’età (il turno) alla quale venivano tradizionalmente tagliati: sono i cosiddetti cedui ‘invecchiati’. E spesso si assiste a una ‘conversione silenziosa’ in cui il ceduo invecchiato manifesta un’autonoma evoluzione verso la fustaia, indipendentemente dalle azioni (o inazioni) e dalla volontà dei proprietari, in una spontanea dinamica post-coltura [3].

In molti casi, questi cedui in cambiamento sollecitano la conversione all’altofusto, anche per sottrarre il ceduo alle mire speculative di chi lo vorrebbe ancora sfruttare per produrre in modo indiscriminato biomasse da energia: di chi del ceduo vorrebbe fare solo cippato di legno, come ci è capitato recentemente di scrivere [5]. 

Lo scriviamo anche convinti del fatto che una sapiente, seppur non indiscriminata, opera di conversione all’alto fusto possa favorire, in molti ambienti di collina e di montagna, un mosaico territoriale in cui la coesistenza di diversi sistemi di coltura rappresenterebbe un valore aggiunto sul piano ambientale e paesaggistico.


Il caso della faggeta: come si pianifica la conversione all’alto fusto?

Altofusto si, altofusto-mania no, diceva qualche vecchio forestale. Ma parlando di faggete, chi è a favore dell’alto fusto, come chi scrive, gioca in casa.

Il faggio è una specie dalla scarsa capacità di rigenerazione vegetativa (bassa facoltà pollonifera) e il ceduo di faggio è un tipo colturale tollerabile solo nel caso di piccole proprietà private o in caso di boschi comunali sottoposti a usi civici di legnatico; l’alto fusto è sempre raccomandabile per la faggeta, così scrive Giovanni Bernetti [6, 7].

Ma come si pianifica una conversione del ceduo di faggio all’alto fusto? Lo descriviamo in modo semplice ad uso degli studenti di Scienze Forestali e Ambientali, e di chi fosse interessato all’argomento.

La prima cosa da fare è quella di diagnosticare se il bosco sia in grado di rinnovarsi naturalmente da seme. Perché è pacifico che ci può essere fustaia, per definizione, solo laddove ci sia la possibilità di rinnovazione da seme. La diagnosi si basa sull’attenta osservazione delle caratteristiche del suolo, dell’humus, della vegetazione del sottobosco. Un indizio importante è rappresentato dalla presenza, qua e là, di piantine di faggio nate da seme, la cosiddetta pre-rinnovazione. Se c’è, si può ragionevolmente confidare che la stazione sia potenzialmente idonea a ospitare la rinnovazione naturale, una volta che il soprassuolo sia opportunamente trattato a questo scopo [8, 9, 10, 11, 12].

Se la diagnosi sulle potenzialità stazionali per la rinnovazione è incoraggiante si potrà procedere, altrimenti è meglio lasciare il ceduo alla libera evoluzione e a quella ‘conversione silenziosa’ di cui si parlava prima.

Supponiamo, come caso di scuola, che all’interno di una proprietà forestale per la quale si sta preparando il piano di gestione, ci siano alcune particelle (la particella è l’unità di base dei piani di gestione forestale) di ceduo di faggio più o meno ‘invecchiato’, per le quali vengono diagnosticate, dopo attento studio stazionale, buone prospettive per la conversione all’alto fusto. Queste particelle possono essere aggregate in una classe colturale definibile come ‘compresa di conversione all’altofusto’.

Sulla base di numerose esperienze compiute in Italia nell’ultimo secolo, uno dei metodi più idonei per dare il via alla conversione nei cedui di faggio è rappresentato dalla ‘matricinatura intensiva’, che inizia con un taglio (detto di avviamento) nel corso del quale si procede a selezionare i fusti (detti 'allievi') migliori e dominanti per ogni ceppaia: questi fusti vanno a costituire la parte epigea di un bosco cui si dà nome di popolamento transitorio, per il fatto che si tratta del soprassuolo con il quale si inizia la transizione dal bosco ceduo a quello di alto fusto. Con questo intervento si rilasciano, a seconda delle caratteristiche del ceduo, dai 1000 ai 2000 allievi per ettaro; contemporaneamente, si procede a una graduale eliminazione delle matricine più sviluppate presenti nel bosco ceduo.

Dopo il taglio di avviamento, sono da prevedere, nel programma di conversione a lungo termine, che si estende su successivi periodi di pianificazione, 3- 4 diradamenti. In modo da arrivare, fra i 90 e i 120 anni, a un soprassuolo idoneo ad essere assoggettato ai tagli di sementazione: i tagli che danno inizio al periodo della rinnovazione naturale da seme, con la quale si otterrà la sostituzione del popolamento transitorio (ancora di origine agamica) con la fustaia vera e propria.

I tagli di sementazione possono essere cadenzati nel tempo e nello spazio in modo da puntare a una fustaia diversificata per classi di età e stadi colturali. A seconda che i tagli di sementazione vengano effettuati sull’intera particella o a gruppi più o meno piccoli, si otterrà una foresta con una struttura da grossolana a fine. Il risultato potrà quindi essere sia quello di una fustaia da gestire, come insegna l'assestamento forestale, con il metodo delle classi cronologiche, o con un metodo strettamente colturale, come quello del controllo.

Nel nostro caso di scuola, il taglio di avviamento all’alto fusto verrà effettuato, nel primo periodo di pianificazione (di durata decennale o ventennale), solo su una sezione della compresa di avviamento, iniziando dalle particelle in cui il ceduo è più invecchiato, quelle di maggiore fertilità e con migliore sviluppo dei polloni. Nelle restanti particelle si proseguirà con il governo a ceduo, procedendo eventualmente al rilascio di un numero di fusti (matricine) superiore alla norma. Nei successivi periodi di pianificazione gradualmente tutte le particelle saranno assoggettate al taglio di avviamento all'alto fusto.

Il periodo per completare, sull’intera compresa, la conversione a fustaia (quando tutto il bosco deriverà da seme) è quindi un periodo molto lungo, che si estende necessariamente a numerosi periodi pianificatori.

Oggigiorno, con il clima, l'ambiente e il contesto socio-economico in rapida transizione, una programmazione di così lungo periodo potrebbe apparire come un anacronistico controsenso. Questo sarebbe vero se il piano di gestione della foresta venisse visto come un progetto chiuso. Se invece la gestione è intesa in senso aperto e genuinamente adattativa [12], la programmazione di lungo termine serve per dare una direzione di massima che va sottoposta a regolare valutazione: procedendo alle 'correzioni' gestionali che via via si rendono necessarie sulla base dello stato ecologico e colturale del bosco, e del contesto socio-economico. Ma la destinazione a fustaia per la faggeta rimane, quella è stata prevista e quella resterà.

Sopra: grande e vecchia matricina di faggio, bosco di Casalino di Ligonchio (RE); in mezzo: alberi secolari di faggio al limite della vegetazione arborea, prati di Sara, Monte Cusna (RE); popolamento transitorio di faggio al Lago Santo parmense (PR) (foto di Marco Borghetti).

[1] Ciancio O., Nocentini S. (2004). Il bosco ceduo. Selvicoltura Assestamento Gestione. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze, pp. 721.

[2] Agnoletti M. (2018). Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano. Laterza, Bari-Roma, pp. 366.

[3] Fabbio G., Cutini A. (2017). Il ceduo oggi: quale gestione oltre le definizioni? Forest@ 14: 257-274.

[4] Marchetti M. et al. (2018). Le foreste e il sistema foresta-legno in Italia: verso una nuova strategia per rispondere alle sfide interne e globali. Forest@ 15: 41-50.

[5] Borghetti M. (2022). Prendersi cura dei boschi italiani, se ne parla al prossimo congresso SISEF. Forest@ 19: 49-51. - doi: 10.3832/efor0048-019

[6] Bernetti G. (1989). Assestamento Forestale: i piani particolareggiati forestali. DREAM Italia Edizioni, Firenze, 261 pp.

[7] Bernetti G. (1995). Selvicoltura speciale. UTET, 416 pp.

[8] Magini E. (1954). Preliminary observations on the types of beechwood in the Vallombrosa forest. XI IUFRO Congress, Roma, 1953.

[9] Hofmann A. (1991). Il faggio e le faggete in Italia. Ministero dell’Agricoltura e delle foreste, Corpo Forestale dello Stato. Collana Verde n. 81.

[10] Madsen P., Hahn K. (2008). Natural regeneration in a beech-dominated forest managed by close-to-nature principles - a gap cutting based experiment. Canadian Journal of Forest Research 38 (7): 1716-1729.

[11] Madsen P., Larsen J.B. (1997). Natural regeneration of beech (Fagus sylvatica L.) with respect to canopy density, soil moisture and soil carbon content. Forest Ecology and Management 97: 95–105.

[12] Ritter E. et al. (2005). Light, temperature and soil moisture regimes following gap formation in a semi-natural beech-dominated forest in Denmark. Forest Ecology and Management 206: 15-33.

[13] Nocentini S. et al. (2020). Historical roots and the evolving science of forest management under a systemic perspective. Canadian Journal of Forest Research 5: 163-171.