Dall’integrità di un sottile confine forse dipende il vigore dei grandi alberi e delle foreste. Da quel confine che separa la chioma dall’atmosfera: una sottile pellicola, alcuni strati ben organizzati di cera stesi a coprire l’epidermide fogliare con una miscela idrofobica di acidi grassi e alcoli, la cuticola fogliare. Nell'immagine un  querceto di farnetto  (Quercus frainetto Ten.) con sintomi di declino da siccità, San Paolo Albanese (Potenza), estate 2021 (foto di Maria Castellaneta). Scorrere per la fotostoria.

Bassa Val d'Adige, destra idrografica. Estesi imbrunimenti di chioma nel  bosco misto (carpino, leccio) di versante, dovuti alla prolungata 'campana' di caldo e siccità dell'estate 2022). Come reazione di adattamento per evitare un'eccessiva disidratazione, gli alberi anticipano il distacco autunnale (abscissione) delle foglie. Foto di Marco Borghetti, 15 agosto 2022.

Appese a un filo?

Il titolo può apparire inquietante, ma riprende quello di un articolo apparso tempo fa su Science [1]. Le foreste sarebbero in serio pericolo a causa della crisi climatica, che sta provocando forti aumenti della temperatura e del grado di secchezza dell'aria, una cospicua alterazione della piovosità e, nell'insieme, condizioni che determinano siccità sempre più accentuate e prolungate. Di fronte alle quali le foreste sarebbero, per l'appunto, 'appese a un filo'.

In realtà questo titolo fa riferimento a una condizione fisiologica ben nota. E' da più di cent'anni che sappiamo come ogni albero sia appeso a dei fili: quelle migliaia di filetti di acqua che, scorrendo dalle radici alle foglie attraverso la matrice porosa del legno (i condotti xilematici), permettono alle microscopiche valvole fogliari (gli stomi) di rimanere aperte. In modo che l'anidride carbonica, essenziale substrato per la fotosintesi, possa entrare dall'atmosfera nel mesofillo fogliare ed essere poi trasformata, grazie all'energia luminosa catturata dalla clorofilla, nei carboidrati necessari per la crescita e il mantenimento dei tessuti.

Da molti anni sappiamo anche come questi filetti di acqua, essenziali per la vita della pianta, siano sottoposti a una tensione, che aumenta col crescere della secchezza del suolo e dell'atmosfera. Quando raggiunge un certo livello, la tensione diventa una forza in grado di aspirare - attraverso quelle piccole perforazioni (punteggiature) che interrompono la parete xilematica - l’aria presente negli spazi esterni. L'aria entra nel condotto in forma di minuscole bolle che, per via dell’instabile equilibrio fisico che caratterizza l’acqua quando si trova sotto tensione, si aggregano rapidamente fra di loro formando delle cavità occupate da emboli gassosi.

Gli emboli bloccano il flusso idrico nel condotto xilematico e sono in grado di diffondersi a cascata da un condotto all’altro con il medesimo meccanismo, estendendo così l'area xilematica che diventa incapace di trasportare l'acqua. Alla lunga, si può innescare un circolo vizioso in cui cavitazione e tensione si alimentano a vicenda, così da causare condizioni di embolia sempre più estese, che possono dar luogo a un vero e proprio collasso del trasporto idraulico. In condizioni estreme, si può arrivare alla completa recisione della continuità idraulica e del rifornimento idrico alla chioma, che entra così in sofferenza, iniziando dai rametti apicali, dove più alta è la tensione idrica.

Ancora negli anni  novanta, prima che il cambiamento climatico fosse ogni giorno argomento di dibattito sui mezzi di comunicazione, da poco arrivato all'Università della Basilicata, iniziai con i miei collaboratori alcuni esperimenti in campo per indagare i meccanismi fisiologici che le pinete mediterranee adottano per affrontare prolungati e intensi periodi siccitosi. In una pineta di pino d'Aleppo della costa ionica e in una di pino laricio dell'altopiano della Sila, in Calabria, mettemmo a punto un dispositivo sperimentale in modo che in alcune parcelle di bosco il suolo non ricevesse più l'acqua piovana e fossero anche isolato dal suolo circostante.

Quale fu la reazione delle piante? Un po' diversa fra pino d'Aleppo e pino laricio: in sintesi, il pino d'Aleppo reagì alla siccità principalmente con la chiusura degli stomi, in modo da contenere l'innalzamento della tensione idrica e limitare la cavitazione xilematica, mentre il pino laricio reagì anche riducendo l'area fogliare rispetto all'area di conduzione xilematica, mettendo quindi in atto un adattamento di tipo strutturale [2].

La chiusura degli stomi è sicuramente un modo efficace per contenere il fenomeno della cavitazione. Ma qui entra in gioco la preoccupante novità riportata dall'articolo di "Science" che abbiamo citato all'inizio del capitolo.

  Alcune ricerche, di cui l'articolo riassume i risultati, mostrano infatti che in condizioni di aria molto calda, molto secca e suolo arido - quella combinazione che sempre più spesso il cambiamento climatico sta determinando - la chiusura stomatica non è più sufficiente: le foglie continuano lo stesso a perdere acqua attraverso la cuticola: ad alte temperature questa subisce infatti una degenerazione nella struttura stratiforme dei lipidi che la costituiscono, e questo provoca un aumento irreversibile della sua permeabilità all'acqua.

La conseguenza è che la tensione idrica continua a crescere e i condotti xilematici a riempirsi di bolle d'aria, con le conseguenze che abbiamo descritto sopra. Di questo fatto ho avuto diretta e recente dimostrazione visitando il laboratorio del collega Hervé Cochard a Clermont-Ferrand, uno dei centri di ricerca più avanzati in questo campo: nel corso della visita al mi sono stati mostrati casi in cui la cavitazione xilematica si sviluppa a stomi ben chiusi.

Consapevoli di queste nuova vulnerabilità degli alberi di fronte alle forti ondate di calore e siccità, è legittimo porsi la domanda: cosa può succedere agli alberi e alle foreste? Le specie arboree hanno diversi modi per reagire alle condizioni di pericolo: possono migrare, se la  velocità di fuga riesce a tenere il passo del cambiamento climatico; possono adattarsi, se hanno cicli riproduttivi rapidi e se i meccanismi fisiologici mostrano sufficiente variabilità genetica; possono acclimatarsi, se hanno sufficiente plasticità fenotipica, vale a dire la capacità di adeguare le proprie caratteristiche somatiche alle nuove condizioni ambientali (come mostrava di poter fare il pino laricio nel corso degli esperimenti che ho descritto prima). Alcune specie sono in grado di fare una cosa meglio dell'altra, per cui alcune specie avranno successo, altre meno.

E' probabile che, anche se appese a un filo, le foreste non spariranno ma, sotto la spinta del cambiamento climatico, dobbiamo aspettarci che possano cambiare, più o meno sensibilmente, nella loro composizione e nella loro funzionalità. Di questa possibilità c'è già  buona evidenza scientifica. In una  recente rassegna [3], condotta su casi di crisi della foresta a causa della siccità osservati in tutto il mondo, è stato messo in evidenza che la mortalità provocata dalle ondate di calore e siccità è spesso seguita da modificazioni della composizione e della struttura della comunità forestale con accelerazione dei processi di successione ecologica, che spesso assumono connotazione regressiva. E' stato infatti osservato che frequentemente la specie arborea dominante viene sostituita da altre specie e in un significativo numero di situazioni la foresta evolve verso comunità a prevalenza di arbusti, con perdita di biodiversità e di funzioni. E' anche probabile che nel futuro gli alberi e le foreste siano, come risposta alla siccità, di taglia decisamente inferiore rispetto a quella attuale [4] .

Di fronte a queste modificazioni potrebbero essere considerate scelte gestionali volte a facilitare i processi di successione. Questo però comporterà la necessità di riconsiderare la gamma dei benefici, produttivi e ambientali, che ci  aspettavamo dalla foresta che c'era prima. 

In termini colturali possiamo fare qualcosa per evitare o comunque contenere gli effetti sulle foreste della crisi climatica? Spesso si osserva variabilità all’interno di comunità forestali adattate a difficili condizioni ambientali, ad esempio di quelle comunità che colonizzano gli habitat siccitosi nell’ambiente mediterraneo. Come se l’ambiente lasciasse passare fra le sue maglie selettive diverse possibili soluzioni di adattamento: le strategie di tolleranza o evasione dallo stress idrico possono essere molto diverse fra le specie, e più o meno efficaci a seconda di come la siccità si sviluppa.

In rapporto a questa variabilità si può pensare a una selvicoltura adattativa che cerchi di integrare, fra i criteri di scelta colturale, la dimensione della diversità funzionale. Proponendosi questi obbiettivi soprattutto: interpretare e dare un peso alla diversità dei tratti adattativi delle specie arboree; procedere con scelte colturali che promuovano la diversità funzionale nella data situazione stazionale. Si tratta di scelte colturali da farsi nel quadro di una gestione impostata in una prospettiva  ecosistemica, con un regolare controllo dei risultati ottenuti.


[1] Brodribb TJ. et al. (2020). Hanging by a thread? Forests and drought. Science, 17 Apr 2020 : 261-266.

[2] Borghetti M. et al. (2005). Effetti di carenze idriche prolungate su pinete mediterranee: insegnamenti da due esperimenti in Italia meridionale. Forest@ 2: 31-36. In questo articolo di sintesi si trovano i riferimenti ai lavori originali.

[3] Batllori E. et al. (2020). Forest and woodland replacement patterns following drought-related mortality. Proceedings of the National Academy of Sciences USA 117 (47): 29720-29729.

[4] McDowell N.G. et al. (2020). Pervasive shifts in forest dynamics in a changing world. Science 368 (6494): eaaz9463.


La cuticola fogliare: un confine fragile?

I confini sono per loro natura fragili: separano ambienti dissimili e opposti, sono soggetti a sollecitazioni intense. Non possono essere invalicabili: agiscono da membrane filtranti, devono consentire scambi e interazioni. Sono margini che possono sfrangiarsi, limiti che possono degenerare smarrendo la funzione di regolazione e salvaguardia. Dall’integrità di un sottile confine, e dal mantenimento delle sue funzioni, forse dipende il vigore dei grandi alberi e delle foreste. Dalla sua alterazione potrebbero derivare cambiamenti nella fisionomia della vegetazione forestale, con conseguenze ecologiche e ambientali non trascurabili.

E’ una parte della bellezza degli alberi. Il loro erigersi verso l’alto, con la chioma che ondeggia, immersa nell’aria. Il confine che  separa la chioma dall’atmosfera è segnato da una sottile pellicola, che riveste e protegge le foglie. E’ la cuticola fogliare: alcuni strati ben organizzati di cera stesi a coprire l’epidermide fogliare con una miscela idrofobica di acidi grassi e alcoli. Un confine che protegge il mesofillo fogliare, quell’insieme di cellule che ospitano il complesso macchinario biochimico preposto alla fotosintesi. Un confine impermeabile all’acqua per scongiurare la perdita di turgore, ma trasparente alla luce, in modo che possa giungere alle membrane dei cloroplasti e fornire l’energia per la fotosintesi. Un confine che è efficace barriera contro le sostanze inquinanti, ma permette all’ossigeno di filtrare verso i mitocondri per la respirazione cellulare. La cuticola fogliare è la conquista evolutiva delle piante che, cinquecento milioni di anni fa, furono in grado di colonizzare gli ambienti terrestri. Ma ora è un confine che può diventare fragile: un margine che può entrare in crisi, mettendo in crisi i grandi alberi e l’intera foresta. Sulle cuticole fogliari, fra gli anni ottanta e novanta, nel suo laboratorio di botanica dell’Università di Monaco, il Dr. Jorg Schönherr faceva delle ricerche innovative. Sperimentava l’effetto di lunghe esposizioni della foglia alle alte temperature, oltre i quaranta gradi centigradi. Scoprì che a quelle temperature si determina una degenerazione della struttura stratiforme dei lipidi della cuticola, accompagnata da un irreversibile aumento della permeabilità della cuticola all’acqua. A quel tempo le ricerche di Schönherr non ebbero molta risonanza. Restarono confinate al campo degli specialisti, all’interno del loro orizzonte visivo. Non attirarono l’attenzione di chi allora si occupava delle foreste, della loro ecologia, conservazione e gestione. Le alte temperature dell’aria non erano allora un problema di cui si avvertiva l’importanza. Solo oggi vengono ad acquisire un rilevante significato ecologico nel quadro delle campane di calore che infiammano l’aria. Come quella che in Canada, centocinquanta chilometri a nord-est di Vancouver, nel giugno del 2021 ha sospinto la temperature dell’aria al valore, mai prima registrato, di 49.6 gradi centigradi. Ora le ricerche di Schönherr destano vasto interesse e sono alla base di nuovi modelli interpretativi della vulnerabilità degli alberi e delle foreste.

Ginosa Marina (Taranto). Esperimento di stress idrico prolungato in una pineta di pino d'Aleppo, 1995  (foto di Marco Borghetti). 

Seccumi apicali dovuti a embolia xilematica in alberi di farnetto (foto di Maria Castellaneta).